Le ore ed i giorni successivi ad un fallimento roboante sono spesso le più difficili da affrontare. L’angoscia e la frustrazione si accalcano, annebbiando le menti e scuotendo irrazionalmente i pensieri. Non questa volta però. L’aria che si respira dopo la resa incondizionata vista nella sfida contro la Svizzera, e più in generale nello sciagurato Europeo di Germania, è differente. Non v’è più lo sgomento di altre notti sportivamente drammatiche, ma bensì la depressa rassegnazione dinnanzi all’ennesima capitolazione. Non si tratta nient’altro che di abitudine. L’abitudine all’umiliazione di una nazionale (con la N minuscola) che ormai da anni rispecchia la mediocrità del nostro calcio. Solo la felice parentesi del primo corso di Mancini ci aveva illusi, mostrandoci una reazione italianamente emotiva alla mancata qualificazione al Mondiale di Russia. Una reazione però può durare per un lasso limitato di tempo, poiché dopo di essa l’adrenalina si affievolisce, e se le fondamenta basilari sono assenti non può esservi alcuna possibilità di costruzione.
L’eliminazione di Euro 2024 è dunque l’ennesimo manrovescio malamente subito, volto a porci di fronte ad una realtà che in troppi paiono voler evitare: l’Italia calcistica in questa epoca è nulla.
Non siamo più una grande Nazionale, dal momento che scarseggiano i grandi giocatori e mancano totalmente i campioni. Anche squadre del calibro di Francia ed Inghilterra del resto non propongono di certo un calcio sfavillante ed identificativo, ma hanno dei valori inestimabili e soprattutto incomparabili rispetto ai nostri. Vi sono poi quelle rappresentative come Spagna e Germania, che dopo aver smarrito la retta via hanno avuto la sapienza di saper rifiorire, sfornando molti di quei ragazzi che segneranno i prossimi quindici o vent’anni di questo sport.
Siamo di conseguenza la sesta, la settima o l’ottava Nazionale d’Europa per livello di interpreti, ma allora com’è spiegabile un’esibizione così ignominiosa come quella vista contro una squadra di discreta caratura come la Svizzera?
La risposta è dettata dall’identità. Gli elvetici, così come ad esempio l’Austria o la Romania per dire, hanno improntato i rispettivi cicli sull’identità e sull’appartenenza. Gli uomini di Yakin sono infatti ben riconoscibili in quel 3-4-2-1 basato sulla riconquista alta del possesso, sulla duttilità degli interpreti e su un’intensità agonistica inesauribile. La banda di Rangnick invece è da anni che con il proprio 4-2-3-1 è facilmente inquadrabile in quell’approccio sulla rapidità nel ribaltamento di fronte, sul dinamismo e su quella sistematica ricerca della verticalizzazione.
L’Italia invece non ha nulla di tutto ciò. In sostanza non è né una grande compagine per via dell’assenza di talento, né una di quelle squadre di media fascia caratterizzate da uno spartito sistematico. Forse la triste deduzione da questo discorso è che, non potendo puntare al livello delle grandi Nazionali del Pianeta, dovremmo iniziare a prendere spunto da quelle di media fascia, magari ripartendo più dall’intensità che non dalla qualità dei singoli, come fece ad esempio Conte per necessità nel 2016. Di conseguenza anche le convocazioni andrebbero riviste.
Troppi elementi del resto si sono rivelati non idonei alla maglia azzurra. Dovremmo avere contezza del fatto che alcuni tanto decantati giocatori non sono nient’altro che buoni calciatori, ma di certo non dei campioni. I campioni sono coloro che vincono, incidendo sulle sorti della squadra o decidendo le sfide, di certo non coloro che si eclissano nei momenti più delicati. I demeriti sono dunque da attribuire al Commissario Tecnico, che indubbiamente si è lasciato colpevolmente travolgere da incertezze e dubbi d’ogni tipo, ma è giunta l’ora di togliere alibi anche agli interpreti sul terreno di gioco. Un allenatore può incidere sulle scelte di modulo o di posizionamento delle “pedine” (entrambi aspetti che sono stati tremendamente rivedibili), ma non sulla scocca dei propri uomini. Non può incidere su delle imprecisioni tecniche al limite del ridicolo, non può incidere sul terrore dei giocatori nel ricevere il pallone, non può incidere sulla pigrizia nel marcare l’uomo assegnato e soprattutto non può incidere nella sistematica renitenza a rischiare un cambio di gioco possibile o una giocata pericolosa.
È ad ogni modo questa l’ennesima ora degli interrogativi, inclusi quelli dell’insufficiente Luciano Spalletti e della Federazione, che dovranno capire come gettare delle necessarie nuove fondamenta. Ad ora non possiamo far altro che leccarci mestamente le ferite e sperare che anche i club di Serie A possano per una volta non incarognirsi su delle posizioni alla lunga controproducenti. Nel frattempo l’Italia chiamò, nessuno rispose.