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Gli inizi, la vita da inviato, 90° minuto e non solo: Fabrizio Maffei si racconta a TMW Radio
30 gen 2024 12:02Calcio
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A TMW Radio è stato grande ospite il giornalista Fabrizio Maffei, che ha raccontato la sua carriera.

Cosa sognava da bambino?
"Di fare esattamente quello che ho fatto. Il disegno della mia vita forse era un altro, visto che mio padre era avvocato e covava il sogno di vedere il mio nome accanto al suo sulla targa del suo studio ma non sono riuscitoa dargli quella soddisfazione. Molto probabilmente non ero tagliato per quel mestiere ma avevo il fuoco sacro del giornalista. E sono riuscito a farlo".

Lo sognavi fin da piccolo?
"Da piccolo sognavo a fare l'atleta. Avevo un idolo che era Abdon Pamich e nel 1960 nella mia casa giravo in pantaloncini e la canottiera bianca imitando il marciatore. Poi sì, come tutti i ragazzi, ho pensato di poter fare l'atleta professionista ma ho scoperto molto presto la passione per lo scrivere. Al liceo riuscii a sperimentare questa passione e da lì è iniziata la mia storia".

Come ha convinto suo padre di questa scelta?
"No nfu facile, papà aveva questo sogno che io lavorassi con lui e che non sono riuscito a fargli realizzare. Un giorno glielo dissi che ero diventato il direttore di un giornale, che era la rivista dei tifosi della Lazio, Lazio Club. All'inizio non fu contento, perché immaginava che tutto quello che lo stessi facendo, lo facessi per gioco. Io continuavo a studiare giurisprudenza con scarsa voglia e tempo. A quei tempi avevo già parecchie collaborazioni, ad esempio con Il Tempo, la rivista che dirigevo, per Paese Sera e non solo. A volte fingevo di frequentare il suo studio ma non era per me. Mi fermai a pochi metri dalla laurea ed è un grande rimpianto. Mio padre la prese male, ma poi mi disse 'Lo sapevo'".

Quando le ha poi detto 'bravo'?
"Probabilmente quando riuscivo a superare gli scogli scolastici, alle medie, alla maturità, probabilmente quando mi ha visto la prima volta in onda a 90° Minuto. Prima no perchè ce l'aveva con me. Credo che la mia genarazione abbia vissuto una vita disegnata dai genitori. Io mi sono sentito un po' un ribelle di quel periodo, molti amici e colleghi di mio padre mi guardavano strano perché non volevo ereditare lo studio".

Lazio Club come nasce?
"Da un'idea di Pino Wilson, che faceva insieme al cugino. Allora era diretta da Silvio Rossi, collega de Il Tempo, che mi portò anche lì a collaborare. Silvio non ce la faceva più e mi disse se me la sentivo di prendere il suo posto. E gli dissi di sì, forse anche perché non avevo presente cosa mi aspettava. Wilson alla fine disse di sì e cominciai la mia avventura. Fantastica era l'attesa della stampa, quando il giornale alle prime luci dell'alba veniva impacchettato e spedito. Poi lo portavo a scuola per farlo leggere ai miei compagni di scuola. Io scrivevo del Roma Junior Club, e capitò la fortuna che quando comincia la mia scuola vinse il campionato, con una finale allo stadio Flaminio".

Giocò anche lei?
"Ho giocato, poi ebbi un incidente sugli sci e divenni in seguito dirigente della squadra della scuola".

Come nasce la passione per la Lazio?
"Un padre laziale, sono nato al Flaminio, a 50 metri dallo stadio. Nel mio palazzo abitava un giocatore della Lazio, Pierluigi Pagni, il quale si allenava anche al di là della squadra sul terrazzo dell'abitazione dove lui viveva. Lui era stopper e si allenava in elevazione, giocando a basket. Io lo spiavo dalla finestra, lui se ne accorse e mi invitò a scendere da lui. Diventammo amici e questo rapporto si consolidò quando chiese a mia madre se poteva portarmi all'allenamento. Io fui lì al Flaminio e guardai l'allenamento della Lazio dalla panchina. Poi cominciai a fare nuoto con la SS Lazio, ho fatto canottaggio per il Canottieri Lazio, quindi il biancoceleste era nel mio dna. Anche mia madre era della Lazio, avevamo un abbonamento in Tribuna Tevere".

Le ha mai detto qualcosa suo padre quando commentava la Lazio?
"No, mio padre era molto severo e quindi a lui non piaceva mai l'esagerazione. Ha sempre visto e ascoltato giudizi scevri da ogni commento passionale. Ogni volta che mi veniva chiesto se avevo una passione. Chi si avvicina a una professione come questa avrà una passione per il calcio e inevitabilmente avrò la passione per una squadra. Non credo mai che nessuno si sia mai permesso di mettere in discussione un mio giudizio vedendo in me come condizionato perché essere laziale. Anzi, a una Domenica Sportiva fui accusato di essere juventino da Nevio Scala. Dopo un Parma-Juve, partita per me dominata dalla Juventus, dissi che per me la Juve aveva meritato la vittoria, ospite in trasmissione c'era Mazzone, allenatore della Roma, Scala si permise di dire che ero di parte e che sotto la camicia avevo la maglia bianconera. Io invece dissi che non era così. Si intromise Mazzone, che disse 'Nevio, lascia perde, questo è uno giusto'. Finì lì comunque, come tutte le cose di sport".

Che ci può dire sul suo maestro Tito Stagno?
"Un monumento del giornalismo televisivo. E' stato il mio capo da quando sono entrato in Rai nel 1977 e il suo vice era Sandro Petrucci, altro monumento, un uomo lungimirante, che aveva qualità da talent scout, costruì una squadra al TG1 che ha fatto squadra. Vedi Volpi, Franzelli, Scarnati, questo lavoro lo abbiamo fatto a buon livello tutti quanti a lui. Era un capo molto severo Tito, uno che veniva dal corso annunciatori, telecronisti, esigeva la miglior dizione possibile, ci riprendeva nelle pronunce. Devo dire che è stato un grande maestro. Era convinto che avessi qualità organizzative e che la mia carriera sarebbe stata dietro la telecamera. Lo capì fin dall'inizio, eravamo alla vigilia dei Mondiali dell'86 e mi chiese cosa volevo fare e io, che ero giovane, avevo la possibilità di fare il telecronista e l'inviato per il TG1 e quindi gli dissi 'Grazie, ma voglio fare l'inviato'. Anche perché 4 anni prima fui escluso dal novero dei giornalisti del TG1 che partivano per i Mondiali di Spagna. Io avevo già la divisa a casa, poi un giorno Tito venne da me e mi disse che il direttore Emilio Fede aveva deciso che non dovevo andare. Chiesi perché ma non mi fu detto altro. Io ovviamente ci rimasi molto male e non riuscivo a capire perchè. Andai a piangere da Sandro Petrucci, che anche lui non si spiegò il perché e parlò con Fede. Poi venne da me e mi chiese 'Ma tu ce l'hai con...' e mi disse questo nome. Io dissi di no e chiesi il motivo. 'Perché tu hai scritto degli articoli su Il Tempo contro una persona a lui cara'. Ma spiegai che quel F.M. era un altro collega. Quindi Petrucci tornò dal direttore e spiegò la cosa, ma disse che ormai aveva deciso. Quindi rimasi a casa e fui costretto a ridare la divisa. Soffrii molto e per questo decisi sì di non farmis scappare l'occasione. Nel 1988 poi però sono diventato caposervizio lo stesso. Alla fine mi incontrai con questa persona, che fece una parte che mi disgustò. Mi disse che gli dispiaceva e che non pensava di recarmi un danno simile".

In Messico invece come andò?
"All'epoca si partiva molti giorni prima per raccontare l'ambiente, quindi noi fummo per un primo periodo a Puebla, dove c'era il ritiro della Nazionale. I messicani mi sono rimasti nel cuore, ho fatto anche amicizie lì, ma fui costretto poi a tornare a Roma. Ad agosto però ci tornai per le vacanze. Ero uno degli inviati del TG1 insieme a Galeazzi e poi commentavo le partite del girone del Messico. Non mi sentivo però particolarmente portato per le telecronache. E poi cominciavano ad emergere telecronache diverse da quello che mi avevano insegnato a fare. Una volta il telecronista non doveva prevaricare l'evento, andare oltre le immagine dare informazioni non attinenti all'evento. Doveva essere una guida per il telespettatore. Mi ricordo la tecnica che mi aveva insegnato Martellini ancora, che fu fondamentale". 

Critiche che le hanno fatto del male?
"L'importante era non essere permalosi ma prendere tutto con sportività. Se la critica è costruita ben venga, la critica che viene da pulpiti non competenti non mi piace".

Ci racconta qualcosa di Giampiero Galeazzi?
"Era la gioia in persona. Era un uomo pieno di risorse, un compagno di viaggio, di giochi, di lavoro, di cene insuperabile. Però aveva un approccio al lavoro personale. Non era uno metodico, lui andava a braccio. E mi ricorso una volta che a Mercoledì Sport, quando si davano i risultati dai 64esimi di finale, con squadre con nomi impronunciabili, noi gli consigliavamo di vederli per studiare le pronunce, ma alla fine diceva certe cose, ma andava avanti. Alla fine della trasmissione glielo dicevamo ma con le sue battute ti smontava. Tutto finiva con una grande risata. Era l'unico che aveva la capacità di tornare sempre con la preda trai denti. Ha sfondato per primo la porta sacra dello spogliatoio ed è stato padrone lì, facendo le interviste più incredibili. Lui fu il primo a entrare in campo nella finale di coppa del mondo senza avere l'accredito. Era irrefrenabile, per lui non c'erano ostacoli".

Che ci dice di 90° Minuto?
"Mi viene in mente l'eredità rivcevuta da Paolo Valenti, le difficoltà dell'esordio, la commozione che ho provato, l'introduzione di Nando Martellini che fece il ritratto di un Paolo che la gente non conosceva. Per la prima puntata fu per me come la vigilia di una finale Mondiale. Avevo ansia e la consapevolezza di non poter essere Valenti. Sono entrato in punta di piedi e qualcuno non capì due cose; la prima che era un segno di rispetto nei suoi confronti, non volevo scimmiottarlo; la seconda cosa è perché lasciai la dicitura 'a cura di Paolo Valenti' anche la giornata in cui non ci fu, ma aveva preparato tutto lui. Non gli andava giù la violenza negli stadi. L'ho visto spezzare una matita per questo. Aveva il piacere di averci tutti ospiti noi di 90° Minuto una volta l'anno. Quando ereditai la trasmissione e continuai anche con questa tradizione. Ma dissi subito che non ero Valenti e che eravamo diretti dal TG1 e che dovevamo cambiare stile. Ci fu chi approvò e chi no, ma alla fine gli ascolti ci davano ragione. Era il prodotto che andava, non era chi lo conduceva. Erano i primi gol che vedevi e questo contava, non il resto".

Come le è stato comunicata la notizia della conduzione di quel programma?
"Stavo ricevendo una corte serrata da parte di Mediaset, andai anche 3-4 volte a Milano ma sapevo che sarei rimasto alla Rai. Mi piaceva questa cosa e volevo capire quanto si potesse spingere questa cosa. Il ruolo sarebbe stato quello di responsabile dello sport, lo stipendio non ne parliamo proprio, però per me la Rai era la Rai, aveva avuto fiducia in me, mi aveva assunto e non me la sentii. Gilberto Evangelisti venne a sapere di questi miei viaggi a Milano e dell'offerta ricevuta. Mi chiuse nella sua stanza, alzò la voce in maniera furiosa, quasi mi minacciò. E mi disse che sarei stato l'erede di Valenti, che stava male ma nessuno lo sapeva. Ci fu questo impegno di Evangelisti, che poi mantenne".

Quale è stato il momento più bello?
"Non è legato a una mia conduzione o trasmissione, c'è chi dice Notti Mondiali con la Parietti e la Marini. Le cose più gratificante sono state due: 1988, Olimpiadi di Calgary e Festival di Sanremo, eravamo su due canali diversi. Fu l'Olimpiadi di Tomba e nei giorni precedenti si faceva zapping per seguire i due eventi, e io pensai perché non fare una finestra durante il Festival per vedere Tomba in diretta. Ne parlai con Franzelli e Icardi, ma mi dissero 'Interrompere il Festival...'. Ne parlai con il vicedirettore e lui mi disse di provarci. Chiamai Maffucci, il delegato di Rai 1 responsabile del Festival e gli spiegai la cosa. Sapevamo che sarebbe stato importante anche per gli ascolti e lui mi disse che si poteva fare e che mi poteva dare un minuto e mezzo. Ma gli spiegai che Tomba era terzo dopo la prima manche e gli chiesi 8 minuti. Ma lui mi attaccò il telefono. Poi mi richiamò e me li diede, ma non di più. Io avvertii Franzelli e fece lui la telecronaca. Facemmo il collegamento e sappiamo come andarono le cose, con Tomba trionfante e le immagini di lui con la platea di Sanremo festante. Poi le Olimpiadi di Atene 2004. Ci rendemmo conto che avevamo in contemporanea diversi eventi a squadre e avevamo un canale solo. Per la prima volta la Rai decise di fare le Olimpiadi h24 su un canale, cosa mai fatta prima. Dovevamo fare una scelta, non potevamo trasmettere tutto insieme. Io e De Paoli andammo a parlare con gli organizzatori, loro capirono e decisero di cambiare gli orari di quelle partite".

E sulla Domenica Sportiva?
"L'esordio assoluto, agosto 1981. Anche lì tanta ansia, feci tanti saluti in codice. Cominciai a fare segni di attenzione e saluto per i miei amici. Stagno poi tornato a Roma mi disse che avevo dei tic, ma non confessai mai la cosa".

La persona a cui deve dire grazie?
"A Luciano Bertolani, a Silvio Rossi, a Beppe Crocitti, a Sandro Petrucci, a Tito Stagno".

Quanto ha portato via questa professione alla famiglia?
"Per 30 anni, visto che si lavorava sabato e domenica. Dal 1996 quando sono diventato direttore ha tolto tanto. E un grazie lo devo dire a mia moglie, che non mi ha mai fatto pesare questa assenza".

Perchè lasciò nel 2006?
"Scoppiò l'ennesimo scandalo nel calcio in quel momento, ho avuto un disgusto per una serie di accadimenti, non mi apparteneva più quel mondo. E forse arrivai anche stremato a quel Mondiale, che si concluse in modo trionfale con la festa a Roma. Finito tutto, quando mi svegliai il giorno dopo, pensai che non avevo più risorse da dedicare. E poi volli conoscere l'azienda da altre prospettive. Dopo qualche mese in cui rimisi l'incarico, ebbi l'opportunità di andare a Rai Corporation a New York, conoscendo il lato manageriale. Poi mi sono occupato di relazioni esterne e ci siamo inventati un progetto di mappatura dei giornalisti Rai. Oltre all'esperienza ai concorsi per giornalisti Rai, dove ho conosciuto ragazzi straordinari, con competenze incredibili".

Cosa l'ha colpita di Calciopoli?
"L'atteggiamento di molti colleghi. C'erano persone che avrebbero fatto di tutto per stare a tavola con Moggi e poi nel momento in cui lui si è trovato solo contro tutti gli hanno sparato bordate diffamatorie. Non entro nel merito, mi interessa l'atteggiamento delle persone nei confronti di altre persone".

E' andato anche al Quirinale:
"C'era Ciampi dopo le Olimpiadi del 2004 ebbi l'onore di essere nominato Cavaliere ufficiale della Repubblica. Fui accompagnato dall'allora dg Cattaneo e fu una delle mie più grandi emozioni e soddisfazioni personali".

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